sabato 14 maggio 2011

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Bologna, Prodi a sorpresa in piazza col Pd
Abbraccio con Bersani. Merola piange: video
Diecimila persone per la chiusura della campagna elettorale. Il professore: "Berlusconi bandiera della volgarità". Il candidato a sindaco si commuove e ringrazia quelli che lo hanno voluto. Mentre Calderoli nel pomeriggio aveva insistito col razzismo: "E' un terùn"
E’ stata una mazurka di rancori, un ballo strampalato fatto di cadute – tante – di accuse reciproche e pestoni sui piedi. E’ stata una campagna elettorale debole, quella di Bologna, per due lunghi mesi. Ed è servito il ritorno in piazza Maggiore di Romano Prodi, semplicemente il Professore, dalle sue parti, per porre rimedio al vuoto. E’ arrivato sul palco del Pd, il giorno della festa per Virginio Merola, il candidato a sindaco, correndo, trafelato, di ritorno da un viaggio dalla Cina. E la sua piazza, piazza Maggiore, lo ha accolto con un lungo applauso, liberatorio.

Diecimila persone è riuscito a portare il partito per l’ultimo appello di voto. Quasi quanto quello che è riuscito a fare Beppe Grillo, oggi considerato dalla sinistra il nemico più fastidioso. Ma la piazza stracolma, oltre tutte le aspettative, è riuscita a riportare anche la politica dopo due mesi di vuoto,  giorni in cui i programmi sembravano scomparsi per lasciare spazio ai livori e alle insinuazioni. Un grande processo popolare, quello avvenuto sotto le Due Torri, dove tutti i testimoni più che attenersi ai fatti hanno giocato a screditare chi ha parlato prima.

Così Bologna si era risvegliata ogni giorno, in questi due mesi: infastidita come una signora a cui una folata di scirocco ha rovinato la piega, per niente incuriosita dalle beghe di partito, quasi consapevole che si stava meglio quando si stava peggio, quando il problema politico non esisteva perché nella prestigiosa sede di palazzo d’Accursio si andava a sedere ogni mattina un commissario prefettizio, e non un politico.

Stasera il Pd, grazie a Prodi e a quell’abilissimo e caparbio oratore che è Vasco Errani e a un Pierluigi Bersani molto più a suo agio tra le mura di casa, ha provato a riprendersi la città-simbolo del centrosinistra. O almeno la piazza. Dopo che Grillo prima e l’improbabile coppia da comizio, Bossi e Tremonti, avevano provato a strappargli.

Un Prodi che riabbraccia dopo un lungo periodo di freddo distacco il Pd, che torna il Professore da combattimento: “Berlusconi ha portato la bandiera della volgarità, questa volgarità di cui sento la vergogna in tutti i Paesi del mondo, ed è una volgarità da cui dobbiamo riscattarci, perché  colpisce la nostra dignità e colpisce soprattutto il nostro futuro, il futuro di noi italiani, di tutti noi italiani”. E poi Bersani: ”Noi ci laviamo, ma al limite  è sempre meglio essere sporchi fuori che sporchi dentro”. Così il segretario del Pd, risponde a una domanda del’umorista Dario Vergassola che gli aveva chiesto di commentare l’accusa di Silvio Berlusconi agli esponenti di sinistra di non lavarsi. Bersani risponde al comico anche quando cita Tremonti che, riferendosi alle origini meridionali di Merola, ha detto che di questo passo a Bologna ci sarà un sindaco Alì Babà. “Beh, Alì Babà è sempre meglio dei 40 ladroni”.

Applausi. Ovvio. Ma restano le preoccupazioni, perché se il Pd a Bologna sembra non avere avversari politici la paura dell’astensione si fa sentire. Oggi come mai è accaduto prima. La civilissima città un tempo dotata di senso civico, già alle passate regionale, fece contare una scarsissima affluenza, qualcosa come il 52,2 per cento. Questa volta, vuoi per la botta in testa della coppia d’innamorati (a spese pubbliche) Flavio Delbono e Cinzia Cracchi, candidata anche lei nella lista dell’indefinibile Angelo Maria Carcano, vuoi perché il commissario Annamaria Cancellieri tutto sommato se l’è cavicchiata, il partito del non voto rischia di essere di gran lunga il più potente.

Sarà anche per questo che i candidati hanno fatto di tutto perché la politica sparisse dai loro programmi. Sarà per questo che gli unici comizi degni di questo nome (per numero di presenze) siano stati quello di Beppe Grillo, il politico dell’anti politica, e quello del Pd. Ma l’impressione, e la paura, che Bologna, quella che fu un’aristocratica signora comunista e occidentalizzata, oggi sia più interessata alle condizioni meteorologiche che non al risultato elettorale è forte.

Non ci saranno colpi di scena alla Guazzaloca: è molto probabile che Virginio Merola, 56 anni, candidato del Pd di quarta scelta (perse le primarie con Flavio Delbono e si è trovato candidato solo perché Maurizio Cevenini ha mollato per problemi di salute) riesca a prendersi la poltrona, forse anche al primo turno. Anche perché gode dell’appoggio delle coop, le uniche in grado di spostare, seppur in parte, l’elettorato.

Se finirà al ballottaggio la colpa sarà solo sua. E non perché avesse avversari di prim’ordine, ma perché – talvolta – il suo primo nemico è stato sé stesso. Per dieci volte si è ingarbugliato con la storia del Bologna calcio, senza mai confessare candidamente che lui ha studiato da sindaco, forse, non da storico dell’almanacco Panini. Eppure, tutte le sacrosante volte che i giornalisti lo intervistavano lui è riuscito a inciampare su quella passione rossoblù che ogni domenica rode il fegato almeno trentamila persone: spero che vada in A, spero che non vada in A, ha vinto uno scudetto, anzi, no, forse due, tre, quattro. Sarebbe bastato rispondere non seguo il calcio, e avrebbe evitato di diventare il pungiball di ogni giornalista che si sia trovato a passare per Bologna. Due giorni fa l’ha fatta anche peggio: “Si”, ha detto a Giuseppe Cruciani di Radio 24, uno che la sinistra la legge più o meno come Berlusconi: “Negli anni Settanta fumavo le canne, come tutti”. Abbiamo dei seri dubbi sul fatto che Dozza, Zangheri, Imbeni, passassero le giornate a farsi le canne, avrebbe sicuramente risposto meglio con un “no, grazie, sono qui per parlare di programmi, non credo interessi a nessuno”.

“Purché non parli e ce la facciamo al primo turno”, ripetono da giorni i mammasantissima della sinistra bolognesi, un po’ per finta un po’ per davvero.  Lui, Merola, è andato avanti. Non se l’è mai presa più di tanto. Ha passato le giornate a studiare i sondaggi, a ripetersi che bisogna portare al seggio quelli che non ne hanno la minima intenzione. Il pensiero di tutti gli altri candidati. Anche se ieri, Merola, bianco in volto, commosso fino alle lacrime, ha riportato un po’ di umanità nel suo discorso, aperto con un ricordo del piccolo Devid, il neonato morto di freddo in piazza Maggiore e che tutti, in questi mesi di accuse e veleni, Merola compreso, avevano dimenticato. In ritardo, sicuramente, ma lo ha fatto.

La fortuna Merola ce l’ha, e il suo colpo da novanta l’ha già fatto: si chiama Manes Bernardini, il candidato del centrodestra. Non perché Bernardini non sia bravo, non lo possiamo sapere, ma perché è leghista della prima ora, si ispira al modello Flavio Tosi, fa colazione a pane e Maroni e gioca a fare il moderato dalla faccia pulita, quando è leghista come e più dei duri e puri di Pontida. Non è Bossi quando parla né assomiglia vagamente a un Boso o un Borghezio, ma la provenienza è di quel verde che con Bologna ha poco a che fare.

E’ vero, la città non è più la stessa da abbondanti vent’anni, è sporca, pitturata dai graffitari in ogni suo angolo, e nei bolognesi l’avversione per questa culla che tutti accoglie è diventata più palpabile rispetto al passato. Ma nonostante questo, non è leghista, non riuscirà mai a esserlo. E se Giulio Tremonti (“Merola? Ma qui non siamo a Napoli”, ha detto in piazza Maggiore) e Roberto Calderoli (“Quello lì è un terrone”) fossero rimasti a casa gli avrebbero dato sicuramente una mano al loro candidato.

La terza scelta si chiama Stefano Aldrovandi, un civico che, più che volto nuovo, è il Guazzaloca che avanza, con tutto quello che la definizione comporta, compresa l’accusa di corruzione dalla quale il primo sindaco non rosso della storia repubblicana dovrà difendersi. Lo appoggiano Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini, il cosiddetto terzo polo, ma solo perché se volevano entrare nella gara solo a lui potevano riferirsi. Non è stata una loro scelta, Aldrovandi. Lo hanno preso. Punto e basta.

Così, quella maestra di educazione civica che per mezzo secolo è stata la signora Bologna, oggi rischia di dare il peggiore degli esempi a tutti. Andare al mare, non pensarci più. L’unico bagliore perché questo sia evitato è l’immagine di piazza Maggiore nel giorno della festa del Pd. Ma potrebbe non bastare.
 
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L'energia viene dalla voce
Il telefonino si ricarica parlando

Una nuova tecnologia sviluppata in Corea permette di utilizzare le vibrazioni sonore per produrre elettricità. Applicazioni possibili nell'elettronica di consumo, ma anche nel trasporto di TIZIANO TONIUTTI

ROMA - La voce umana è energia. E ricaricare il telefonino semplicemente parlando potrebbe essere possibile già nel futuro prossimo, almeno secondo una squadra di ingegneri dell'Università sudcoreana di Sungkyunkwan a Seoul. "Abbiamo cercato di trasformare il suono in elettricità", dice l'ingegnere Sang-Woo Kim al quotidiano inglese Telegraph. "La voce è una possibile fonte di energia, a cui non è mai stata data l'attenzione che merita".

A rendere possibile la cosa è un nuovo tipo di batteria, in grado di trasformare le vibrazioni sonore in elettricità. Non solo la voce, quindi: il telefonino si potrebbe ricaricare anche lasciandolo in un ambiente rumoroso. Magari, tenendolo in tasca quando si viaggia su un mezzo pubblico. Più rumore c'è, meglio è, secondo i ricercatori. Una soluzione che potrebbe invitare ad urlare nel telefono per ricaricarlo.

Come funziona. Tutto sommato, non sembra un'idea complicata. Alla batteria è collegato un materiale fonoassorbente, che vibra e trasmette la vibrazione a filamenti di ossido di zinco. Questi rispondono alla vibrazione contraendosi ed espandendosi, producendo elettricità. Al momento esiste solo un prototipo della batteria, in grado di alimentare dispositivi a basso consumo. Ma le applicazioni commerciali e su più ampia scala potrebbero non essere così distanti.

Non solo parole. Ma l'intuizione di Sang-Woo Kim è
una di quelle destinate a fiorire. Limitarsi a ricaricare i cellulari, quando una simile tecnologia potrebbe essere usata anche per i veicoli, i computer, l'illuminazione, insomma qualunque dispositivo alimentabile con una batteria? Dice l'ingegnere: "Se le autostrade fossero dotate di protezioni acustiche, potrebbero catturare il suono dei veicoli e permetterne la ricarica in marcia, al contempo diminuendo la rumorosità nell'ambiente".
 
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Il bambino degli alberi
nel mondo verde di Felix

Finkbeiner ha 13 anni. Negli ultimi quattro ha piantato oltre un milione di alberi. La sua associazione Plant For The Planet è presente in oltre 70 nazioni e ci lavorano piccoli eroi di tutto il mondo. Con uno slogan: "Stop talking, start planting". L'obiettivo è arrivare a un trilione di nuove piante in dieci anni di KATIA RICCARDI

ROMA - Aveva nove anni Felix Finkbeiner quando disse: "Pianterò un milione di alberi in Germania". E perché no? In fondo perché limitarsi a un'esile piantina sul davanzale di una finestra alle elementari. Soprattutto dopo la lezione delle maestre sulla fotosintesi clorofilliana, il disboscamento planetario e il pericolo che corre l'ambiente e quindi noi, tutti. Oggi Felix di anni ne ha 13, il milione di alberi ha finito di piantarlo l'anno scorso, e non ha nessuna intenzione di fermarsi. Perché no. Perché accontentarsi proprio ora che il progetto, così come gli alberi, sta dando i suoi frutti? Il primo albero Felix l'ha piantato sotto la finestra della sua classe, nella sua scuola a Monaco. Il milionesimo il 4 maggio dello scorso anno. Alla cerimonia erano presenti politici e ministri dell'Ambiente di 45 nazioni.

VIDEO 1 - FOTO 2

Tornato a casa dopo la lezione delle maestre 4 anni fa, Felix Finkbeiner ha cominciato a pensare al suo progetto. L'ispirazione l'aveva trovata nella vita e nell'opera di Wangari Maathai, premio nobel per la Pace, ambientalista, attivista e biologa keniota, che aveva aiutato a piantare oltre 30 milioni di alberi. Dall'inizio della sua visione, solo in Germania Felix ha piantato 250mila alberi ogni anno. Più
o meno 30 alberi all'ora, ogni ora. Il progetto scolastico è diventato l'organizzazione Plant For The Planet (sito ufficiale 3). Il cui slogan è: "Stop talking, start planting" (Basta parlare, iniziare a piantare).

Il primo dipendente Felix lo ha assunto a nove anni. Oggi del Plant for the Planet Foundation's Children Coordination Council, fanno parte 23 persone. E sono tutti bambini di 12 anni. Piccoli ambasciatori per il 'Climate Justice' che vanno in giro per il mondo a dare lezione di sogni. Hanno tutti una visione precisa e sanno come raccontarla: "Vorremmo che gli esseri umani della nostra generazione si sentano cittadini del mondo". Viaggiatori globali. Niente di troppo complesso. In fondo la lenta distruzione del mondo coinvolge comunque tutti. Hanno ragione i bambini, se manca l'ossigeno c'è solo da ripiantare gli alberi.

Il loro programma di azione si basa su tre punti principali: l'eliminazione di tutto ciò che emette tecnologicamente CO2, anidride carbonica. Bandite le emissioni di carbonio a livello globale, chiunque sia responsabile di superare la tonnellata e mezzo di CO2 dovrà pagare per l'eccesso. Infine la riforestazione. L'obiettivo è quello di riuscire a piantare 500 miliardi di alberi, per arrivare a un trilione in dieci anni. I primi a dare l'esempio saranno proprio loro, un milione di piante a bambino in ciascun Paese. Al momento Plant For The Planet è presente in 131 nazioni.

Felix Finkbeiner ha il talento di saper essere convincente (VIDEO 4). E la capacità di aver saputo sognare oltre l'esile piantina sulla finestra della sua classe. Sa come descrivere i cambiamenti di clima cui assistiamo e che stiamo subendo e conosce l'incapacità burocratica per iniziare a ottenere risultati pratici in tempi rapidi di cui soffrono gli adulti. "Noi bambini ci sentiamo veramente traditi. Dopo tutto quello che si è fatto e detto a Copenhagen nella conferenza Onu sul clima, alla fine cosa si è ottenuto veramente? Non abbiamo ancora fiducia negli adulti. Così abbiamo deciso di iniziare da soli a cambiare le cose", ha detto Felix Finkbeiner nella speranza che il suo discorso alle Nazioni Unite possa ispirare piccoli eroi in tutto il mondo.

Alle spalle ha una famiglia forte che crede nell'ambiente. Anche suo padre, prima di lui, aveva cominciato la sua lotta per il pianeta, sebbene non alla stessa età. E' la famiglia a aiutarlo negli studi mentre Felix viaggia intorno al mondo per divulgare le sue idee, lo segue quando è lontano da casa e dall'albero sotto la classe per settimane.

Il mondo degli adulti risponde alla sua battaglia per il verde come può e sa fare. Dona soldi, passa parola, e fotografi (tra i quali Andreas Biedermann, Anita Bischoff, Per Eriksson, Annette Koroll, Bernd Schumacher, Jens Umbach, Markus Seidel, Thomas Rosenthal e Thore Timm) contribuiscono con immagini di volti famosi. Le fotografie sono tutte uguali. Un bambino chiude con la mano la bocca di un adulto. Basta parlare, ora è il momento di piantare. Con Felix e i piccoli ambasciatori hanno posato Harrison Ford, la modella brasiliana Gisele Bündchen, il filosofo Hans Küng, la principessa Haya Bint Al Hussein, il principe Alberto di Monaco, il tennista Michael Stich, il premio Nobel per la Pace Muhammad Yunus, il presidente dell'Ecuador Rafael Correa, l'artista inglese John Watts e decine di politici, dirigenti e diplomatici (FOTO 5).

E' tempo di cambiamento. Le parti si sono finalmente invertite, oggi sono i bambini a raccontare le favole ai grandi. Ma invece che per farli addormentare, lo fanno nella speranza che si sveglino.
 
(13 maggio 2011)

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